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DIALOGARE CON I FIGLI

da “O. Poli, Il dialogo tra genitori e figli, EDB”

[…]

Come dialogare con il figlio: i “Quattro passi”

I “passi” sono delle tappe, delle fasi che, se rispettate, danno ordine ed efficacia al dialogo educativo.
I quattro momenti fondamentali di dialogo, nella situazione in cui il figlio abbia un problema da risolvere
sono:

1. LA COMPRENSIONE DEL SENTIMENTO
2. L’IMMAGINARE SOLUZIONI
3. IL CONFRONTO
4. LA DECISIONE
Tali passi non intendono essere una gabbia in cui irrigidire forzosamente il dialogo, ma una "traccia" da
utilizzare in modo non meccanico.

Un utilizzo più naturale di questa modalità può avvenire solo attraverso un ripetuto esercizio degli stessi.

Esaminiamone da vicino i loro effetti e la giustificazione pedagogica.

1. COMPRENSIONE DEL SENTIMENTO
L’abilità decisiva consiste nella capacità del genitore di "sintonizzarsi" con il figlio, ponendo attenzione
ai sentimenti che egli prova.

Avere un problema comporta l'emersione di sentimenti difficili: paura, rabbia, desiderio di vendicarsi,
scoraggiamento, delusione... È ad essi, che il genitore presta attenzione, ponendosi la domanda: “Cosa prova mio figlio?”, “Come si sente in questo momento?”. Mentre il figlio parla e descrive la situazione il genitore ascolta contemporaneamente il contenuto del racconto (le cose che il figlio dice) e i sentimenti che egli manifesta (cosa prova, come si sente in questo momento in cui mi sta raccontando questi avvenimenti). L’abilità di cogliere i sentimenti più che i contenuti del racconto , appare decisiva perché il figlio si senta “compreso”.

In alcuni casi i sentimenti sperimentati dai figli sono espliciti, sono raccontati dallo stesso (“Sono arrabbiato
perché...”). Altre volte sono impliciti, non sono verbalizzati dal figlio. In questo caso è necessario desumerli, intuirli ponendo attenzione all'espressione del viso, ai alcuni comportamenti insoliti, al “tono” di voce, a tutti i segnali non verbali del contesto.

Attraverso l’ascolto dei sentimenti, il genitore è in grado di comprendere il figlio.

Essere “comprensivi” nel senso in cui viene comunemente inteso questo termine è confusivo ed improprio.
Una persona comprensiva è intesa come eccessivamente tollerante, disposta a “lasciar perdere”, “lasciar
correre”, molto permissiva. Un atteggiamento questo, improponibile nella gestione della maggior parte delle situazioni educative reali. Comprendere infatti non significa “permettere”, né “essere d'accordo” con il figlio. Significa semplicemente (e solo) saper cogliere i suoi sentimenti , ciò che prova, ed è possibile essere comprensivi anche nell'eventualità del più completo disaccordo sui contenuti.

Accettare è cosa diversa dall'approvare. La comprensione si attua decidendo di ascoltare il figlio, permettendogli di esprimere le sue ragioni ed ascoltando i suoi sentimenti. Ascoltare implica per il genitore il "fare silenzio" , per un momento far tacere se stessi, la propria visione del mondo, i propri giudizi, per cogliere l'altro, il suo punto di vista del figlio .

Un silenzio questo che non è solo tacere, ma che produce la conoscenza dell'altro, di nostro figlio.

La sensazione di essere compreso crea un clima di intimità psicologica, allontana la paura del giudizio,
della critica, della proibizione, creando una "base di fiducia" che permette un incontro vero, non importa quanto difficile, fra genitore e figlio. Sentirsi ascoltato, nell'esperienza dei figli, dà loro la sensazione di sentirsi rispettati, di sentirsi importanti, perché “presi in considerazione” dal genitore. Li fa sentire accettati nella propria diversità, così come sono , e non perché sono come vorrebbero i genitori. Il ragazzo che cresce intravede qui, nella ripetuta esperienza di comprensione, la possibilità di fidarsi ad essere se stesso, senza il bisogno di mascherare la sua diversa personalità per conservare l'affetto e la stima dei genitori.


sua diversa personalità per conservare l'affetto e la stima dei genitori.

Se il ragazzo sperimenta un tale clima di accettazione "incondizionata", aumenta la probabilità che egli
si apra e prenda in considerazione nuovi valori, nuove idee, nuovi sentimenti, proposti dall'educatore. Questo non significa approvare una situazione, essere d'accordo con il figlio. Significa semplicemente accogliere e rispettare i suoi sentimenti, desideri, anche se in contrasto con i nostri. Ripetute esperienze di accettazione generano nei figli la convinzione sincera e profonda della loro dignità personale, il senso di fiducia in se stessi, la sensazione di "essere un valore".

La dolcezza di questi sentimenti genera il loro un atteggiamento di apertura, di intimità psicologica con i
genitori. Il sentirsi accolti psicologicamente dal genitore fa loro "venir voglia di parlare", di esprimersi con
maggiore libertà e profondità, facilitano racconti meno "difensivi" , meno tesi a coprire le proprie responsabilità e crea di un incontro vero fra genitore e figlio.

Alcuni genitori ritengono di avere un "buon dialogo" con i figli perché, come dicono “parlo loro anche
per ore”.

In realtà l'atteggiamento fondamentale per generare un dialogo costruttivo è saper ascoltare più che parlare, saper accogliere, prima e più che cercare di convincerli della bontà delle nostre ragioni.

Molti figli , rivolgendosi ai genitori sentono la necessità di introdurre i loro racconti premettendo: “Ti
devo dire una cosa, però ascoltami...”, “Ti dico una cosa se mi prometti di non gridare subito...”

L’esperienza li porta prevedere con esattezza i comportamenti e gli atteggiamenti dei loro genitori. Non
si aspettano di essere ascoltati.

Quali sono le condizioni della comprensione?
Per realizzare un atteggiamento di comprensione è necessario "sospendere il proprio giudizio" ed il desiderio di esprimere il proprio parere.

Si realizza, nell'esperienza di molti genitori, cercando di ascoltare maggiormente il figlio, mettendo da
parte, per un attimo (e solo per un attimo), il desiderio di fare domande per saperne di più, di esprimere il proprio parere, di dare consigli, di dire il proprio parere.

Per comprendere è necessario concentrarsi su quanto il figlio sta dicendo , provando a non ascoltare le
parole che la nostra mente produce in continuazione ,e cercando , per un attimo, di vedere le cose con i suoi occhi, di provare gli stessi sentimenti, "mettendosi al suo posto",nei suoi panni.

Fermarsi, non seguire il proprio pensiero, ascoltare le parole che vengono dall'altro e lasciarci raccontare
da queste un "altro modo" di guardare la realtà.

La comprensione può essere intesa come un atteggiamento di accoglienza psicologica dell'altro, una spazio
in cui il figlio possa sperimentare la libertà di essere se stesso, accolto come tale, prima ancora di sentirsi dire cosa fare o giudicato nei suoi comportamenti.

[…] Non è sufficiente comprendere, è necessario che nostro figlio si senta compreso e abbia di ciò una
esperienza diretta ed immediata.

Per realizzare questa esperienza, oltre a "tenere da parte" le cose che verrebbe spontaneo dire, è necessario utilizzare frasi riflettenti.

Il genitore che risponde con frasi rilettenti cerca di "ridire al figlio" i contenuti ed i sentimenti da lui espressi.

Le frasi riflettenti, introdotte in alcuni casi con forme dubitative (“Se ho ben capito...”, “mi sembra di
capire che…”) hanno generalmente lo sviluppo: “Tu sei… …perché...” (ad esempio: “Sei molto arrabbiato perché il tuo allenatore non ti ha permesso di giocare”)

Nella prima parte viene ripreso un sentimento, un’emozione sia positiva che negativa (essere tristi, arrabbiati,
felici, sentirsi umiliati...).

Nella seconda parte viene ri-detto il contenuto, i motivi di questo sentimento, desumibili dal racconto
del figlio.

Maggiore attenzione viene comunque accordata alla espressione del sentimento, decisivo nel creare l'effetto comprensione.

Le difficoltà più frequenti riferite dai genitori nel realizzare un atteggiamento di comprensione sono dovute
alla mancanza di una specifica tradizione culturale. La cultura educativa popolare, nelle generazioni precedenti, era comunemente ispirata ad altri principi.


Anche oggi l'atteggiamento di comprensione è guardato con sospetto, evoca pratiche permissive, vi è
scarsa traccia di esso nella predisposizione spontanea della generalità dei genitori.
Ciò si deve:

.
alla mancanza di tempo: nell'esperienza dei genitori avere poco tempo è una condizione che rende difficile
"sostare nella comprensione". Nel dialogo prevale la fretta di concludere, di giungere velocemente
ad una soluzione.

.
all'assenza di concentrazione interiore. Tensioni psicologiche, preoccupazioni delle vita adulta rendono
difficile creare spazio di disponibilità non pre- occupato, capace di accoglienza psicologica.

.
al timore ( spesso non dichiarato ) di doversi far carico dei problemi dei figli, compito questo non sempre
gratificante e facile. L'uso della direttività ( dare ordini , consigli e valutazioni affrettati ) evita un
coinvolgimento emotivo e psicologico che può rivelarsi difficile

.
al timore di "non sapere più cosa dire". L'ascolto attento e rispettoso dell'altro contiene il rischio di sperimentare la ragionevolezza del punto di vista altrui , di "dover cambiare idea", di trovarsi senza facili
consigli. Nell'atto dell'ascolto, la nostra mente può restare incinta della verità dell'altro. E' questa una
eventualità che, sembra, temiamo molto.

.
al timore che il figlio possa approfittarne, scambiando la comprensione con il permesso di fare ciò che
vuole. Opporre immediatamente un rifiuto alla sue richieste può sembrare più efficace , ma tale intervento
verrà subìto , e le ragioni che lo hanno motivato non saranno interiorizzate e condivise.

Come si vedrà, la comprensione può/deve coesistere con la fermezza più intransigente.
[…]

2. IMMAGINARE SOLUZIONI
Il secondo passo consiste nel chiedere al figlio quali immagina o ritiene possano essere le soluzioni più

adeguate alla sua situazione , con sollecitazioni quali:
.. Vediamo: cosa potresti fare in questa situazione ?
.. Hai un'idea di cosa potresti fare?
.. Cosa hai pensato di fare? e simili

È opportuno ritenere che il figlio abbia già immaginato un'ipotesi risolutiva: si tratta di incoraggiarlo a
discuterne apertamente.
La giustificazione pedagogica di tale richiesta rivolta al figlio consiste nel cercare di valorizzarlo, rendendolo protagonista del tentativo di affrontare il suo problema.
Il genitore in questo modo non si sostituisce al figlio, non gli "ruba" le difficoltà , ma lo affianca sollecitandolo ad affrontarle con i propri mezzi.

Lasciando a lui l'onere maggiore della ricerca di una soluzione equilibrata, si crea la condizione perché
egli possa sperimentare le proprie capacità e con esse il senso fondamentale di fiducia in se stesso. Un patrimonio di sicuro aiuto per affrontare le difficoltà della vita .

L'abilità del genitore consiste, in questo caso, nel non proporre prematuramente le proprie ipotesi di soluzione del problema: potrà e dovrà esprimerle più opportunamente in seguito.

[…]

3. CONFRONTO
Rendere protagonista il figlio della risoluzione dei propri problemi non significa lasciarlo solo ad affrontare
le difficoltà..


Il genitore dopo aver ascoltato il figlio (passo 1), averlo sollecitato ad esprimere " cosa si dovrebbe fare"
(passo 2) , può e deve ora esprimere il proprio parere , con frasi quali “A me sembra che questa soluzione...”, “Hai valutato che…?”. “Cosa potrebbe succederti se agissi in quel modo?”, ecc.

In questo modo il genitore mette a disposizione la sua esperienza adulta ed aiuta il figlio a valutare le
conseguenze a lungo termine delle sue azioni, a confrontarla con alcuni valori ritenuti importanti, a considerare alcuni aspetti complessi della realtà che il figlio può non conoscere o sottovalutare.

La disparità di esperienza, può in questo modo essere vissuta dal figlio come un aiuto alla propria crescita
e non come un esercizio immotivato di autorità da parte del genitore. Egli percepisce che queste obiezioni sono espresse perché possa valutare meglio la sua ipotesi , possa evitare errori.

Il genitore quindi dopo aver espresso le proprie valutazioni, anche critiche, le proprie obiezioni, chiede
al figlio di valutarle: “Cosa ne dici?”, “Cosa pensi di ciò che ti ho detto?”

È molto difficile che il figlio non riconosca la ragionevolezza delle obiezioni e delle considerazioni del
genitore, ed un tale contesto di dialogo paritario gli permette di poter cambiare opinione liberamente, senza imposizioni, decidendolo da solo.

Una obiezione del genitore, espressa con chiarezza e franchezza in questa fase ha maggiori possibilità di
essere tenuta in considerazione, di essere accolta, se preceduta dalla comprensione e dalla valorizzazione delle sue idee su “come fare per”.

Non si tratta quindi di ascoltare i figli e permettere senz'altro di fare ciò che hanno deciso , ma di creare
un contesto in cui il confronto sia aperto, reale e paritario. Ciò permette ai figli di giungere " da soli" ad una soluzione ragionevole. In questo modo non chiediamo loro di ubbidire sbrigativamente alla nostra maggiore saggezza ed esperienza di vita, ma provochiamo una valutazione più realistica delle loro scelte.

Nel caso in cui il figlio trovi ragionevole una nostra obiezione si può riprendere il dialogo dal punto 2
(“Se questa non va, hai un'altra idea su cosa potresti fare?”)

Se l'ipotesi risolutiva suggerita dal figlio è ritenuta da subito ragionevole, il genitore eviterà il passo del
confronto.
[…]

4. DECISIONE
In questa ultima fase, il genitore aiuta il figlio ad assumersi la responsabilità delle sue scelte, favorendo
così la maturazione della sua capacità decisionale, con affermazioni quali “Allora hai deciso di…?”, “pensi
di…?”, “Se ho ben capito proverai a…”, ecc., riprendendo le conclusioni cui il figlio stesso è approdato nella
fase precedente

È opportuno concludere il dialogo favorendo una precisa assunzione di responsabilità che permetta al
figlio di vivere come propria la decisione maturata.

Nel caso in cui la fase del confronto si concluda in modo insoddisfacente, lasciando entrambi su posizioni
inconciliabili,il genitore può ispirare la propria azione al criterio del "rischio ragionevole".

Se il genitore valuta che le decisioni del figlio, cui resta contrario, contengono un rischio ragionevole (
tale da non compromettere aspetti rilevanti della sua salute, del rapporto con gli altri, della sua sicurezza), può , e spesso è opportuno, permettere che che il figlio attui le sue risoluzioni.

Permettere che il figlio compia qualche errore, non irreparabile, può essere un'esperienza che contribuisce
alla sua crescita.

Nel caso in cui l'orientamento del figlio, per qualche fondata e grave ragione sia inaccettabile, il genitore
può ricorrere alla proibizione (“Io ti proibisco di farlo”).

La proibizione agita come ultima risorsa, posta al termine di un dialogo in cui il genitore ha dato prova
di comprensione, ha mostrato di ricercare una soluzione condivisa, è più facilmente accettata dal figlio. Non gli appare una imposizione immotivata, ma un gesto di responsabilità inevitabile. Le recriminazioni di rito non interromperanno la possibilità della ripresa del dialogo, dopo qualche tempo, a condizione di rinunciare a riprendere il dialogo con modalità colpevolizzanti (“Vedi? Ti sei convinto che avevo ragione io?”).


In sintesi , per favorire la capacità decisionale del figlio, il genitore lo ascolta con rispetto ed attenzione,
lasciando parlare, conservando il più possibile il silenzio; nella sue risposte da più risalto ai sentimenti espressi

o vissuti dal figlio, che non al contenuto del problema stesso; cerca di cogliere con attenzione il punto di vista del figlio, anche in relazione alle soluzioni da adottare; lascia spazio alla responsabilità del figlio per trovare il sistema, il modo di affrontare e risolvere il problema.
Il genitore aiuta in questo modo il figlio ad acquisire fiducia in se stesso, a sviluppare il coraggio, la forza
d'animo necessaria per affrontare compiti difficili.

 
             
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