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CORSO DI FORMAZIONE PER INSEGNANTI

Educare nella sua accezione più conosciuta è educere, che significa “tirar fuori”, “sviluppare”, “portare a compimento”.

Questo deve portare ad una prima consapevolezza educativa: l'educando non è un vaso da riempire o da modellare, ma è una persona contenente una ricchezza ed un'unicità che si disvelerà nel corso dell'esistenza.

Educare significa favorire lo sviluppo di tutti gli aspetti della personalità umana, fisici, intellettuali, affettivi, del carattere.

Il compito educativo è più d'istruire che si riferisce alla sola educazione intellettuale. Fine dell'atto educativo è quello di far emergere, rendere visibile e operante l'umanità di ogni persona nella sua singolarità ed originalità; è guidare un soggetto alla piena e felice realizzazione di sé, nel segno di una libertà autentica.

Osserva E. Pestalozzi: << In ogni facoltà della natura umana è insito l'impulso ad elevarsi dallo stato di stasi e d'inazione, a quello di forza sviluppata, che fin tanto non è sviluppata è in noi come germe di forza e non propriamente come forza...L'occhio vuol vedere, l'orecchio vuol sentire, il piede vuol camminare, la mano vuol prendere. Ma anche il cuore vuole amare e credere, anche lo spirito vuol pensare...>>.

Compito dell'educatore è indirizzare sulla strada dell'autonomia; occorre insegnare ad un giovane a fare da sé, ad essere in grado di provvedere ai propri bisogni e ad inserirsi in modo attivo e creativo, all'interno del tessuto sociale.

Una persona può dare solo ed unicamente il suo essere, il suo vivere, le sue conquiste ed è proprio per questo che si può essere diseducatori, perchè soltanto nella misura in cui si è cresciuti dentro, si può contribuire alla maturazione e alla felice realizzazione di un educando.

Per educare bisogna essere cresciuti in amore e sapienza, perchè le giovani generazioni osservano la coerenza del nostro comportamento e leggendo, nella profondità del nostro sguardo, il senso e il valore attribuito alla vita.


La sapienza pedagogica della Divina Commedia.

Nel Poema c'è un percorso educativo fondamentale, ed è quello che compie Dante, percorso nel quale convergono quelli di tante anime che incontra; e c'è un percorso che è chiamato a compiere il lettore da Dante stesso, da Dante narratore della sua vicenda, il quale propone il suo cammino esistenziale come “exemplum” da seguire. Il Poeta è e vuole essere un grande educatore; proprio per questo può essere di grande aiuto personalmente e nello svolgimento del nostro compito di insegnanti.

Certo, non è facile oggi leggere e insegnare le Divina Commedia, perchè le sue parole sono così cariche di realtà, di esperienza che possono essere equivocate, possono sfuggire nella loro pregnanza semantica. Questo vale per qualsiasi disciplina, ma se noi insegnanti ci lasciamo sfiorare dalle profondità della Bellezza di ciò che insegnamo, indipendentemente che si tratti di filosofia, italiano, economia, di eventi storici, di formule di matematica o di chimica, se ne siamo toccati, commossi, è inevitabile che qualcosa di tanta grandezza, di tanta bellezza si comunichi agli studenti.

Insegnare non è applicare delle tecniche; può essere anche questo, ma in primo luogo è comunicare, attraverso tutto, il proprio rapporto positivo con la realtà. La realtà, sia essa un testo poetico, una formula di chimica, un evento storico, la persona del ragazzo che si ha di fronte o il nostro stesso cuore, richiede da parte nostra un approccio positivo, costruttivo, commosso nel senso proprio del termine: solo così si sviluppa in colui che deve essere educato il senso della realtà come qualcosa che ultimamente è fatto per lui, come qualcosa su cui proiettere uno sguardo di speranza. Questo è particolarmente importante oggi, in tempi di pensiero debole, di cultura nichilistica, che si riflettono sui ragazzi come senso di vuoto, di incertezza, come di incapacità di impegno con la realtà, come tendenza a un giudizio negativo su tutto e su tutti.

Per questo il vero problema della scuola, al di là di tutte le riforme strutturali che si possono o si devono fare, al di là di tutte le tecniche di insegnamento che si possono o si devono usare, è quello di noi docenti, della nostra umanità, della nostra capacità di insegnare. Quello che insegno deve essere per me un'esperienza di umanità, di verità, di bellezza nel momento in cui l'insegno e di fronte alle persone a cui l'insegno; allora, come per osmosi, vibrerà anche l'umanità dei ragazzi, ovviamente in proporzione della loro apertura di cuore e di mente.

Sono consapevole e percepisco la Bellezza e l'utilità della disciplina che insegno per poterla realmente trasmettere agli studenti come preziosa per il loro percorso formativo e di conoscenza di se stessi?


Ripercorriamo, per sommi capi, la vicenda educativa di Dante. Per avere una prima chiave di comprensione del Poema occorre fare un'importante distinzione, sottolineata oggi da tutti i critici, fra Dante che scrive (L'”auctor”) e Dante personaggio, attore del viaggio (l'”agens”). Il grande educatore è l'auctor, Dante che descrive se stesso come attore di un percorso educativo. Per educare occorre avere una proposta educativa, l'ipotesi di un percorso che si basi su una precisa idea della realtà e dell'uomo in particolare. Il Poeta, giunto alla fine del suo viaggio, sa ormai che cosa è la realtà, che cosa è l'uomo perchè ha imparato, con l'aiuto delle sue guide a conoscere se stesso e il mondo. Virgilio, Beatrice, S. Bernardo gli hanno chiarito, con una saggezza fondata, a diversi livelli, su una tradizione millenaria di valori, la sua esperienza di uomo chiamato a vivere l'avventura della realtà nelle sue profondità ultime.

Vediamo come si svolge tale cammino per il Poeta. Il personaggio Dante compare “ex abrupto”, proprio all'inizio, come un uomo che si accorge (“mi ritrovai”) di essersi smarrito in una selva oscura ( la selva è metafora comune nel Medioevo, usata nel Convivio da Dante stesso per indicare la vita nel peccato, la foresta dell'errore in cui l'adolescente s'inoltra per inesperienza). Quel “mi ritrovai”, con cui fulmineamente il narratore passa dalla condizione universale (“il cammin di nostra vita”) a quella individuale, inaugurando peraltro la narrazione in prima persona nella letteratura romanza, dice un primo sussulto della coscienza.

Egli prova paura, angoscia, nella sua grande solitudine, perchè in quel lungo “sonno”, in quel periodo di dimenticanza ha smarrito “la verace via”, la via del bene; in altre parole ha perso, in primo luogo, il senso profondo di sé e non sa più vivere secondo la sua natura razionale. Dante ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a ritrovarsi, che lo educhi alla esperienza della realtà. Ma non lo capisce subito; tanto è vero che tenta da solo di ritrovare la via verso la verità della vita (simboleggiata dal colle illuminato dal sole). Ma ecco che le tre fiere, chiaro simbolo del male, gli si parano davanti ed egli torna indietro a precipizio, impaurito verso la selva.

E quando gli compare innanzi una figura umana chiede aiuto. Questa è la prima serietà che ritrova Dante: riconoscere che non ce la fa da solo, nel “nel gran diserto” della sua vita, e che ha bisogno d'aiuto. L'ombra si presenta: è Virgilio, l'antico poeta venerato da Dante e dal Medioevo come cantore del “pius” Enea e dell'Impero e come profeta di Cristo. Virgilio gli propone di fare un altro viaggio: “altro” rispetto a quello che Dante immagina, che ogni uomo può progettare, che Ulisse ha tentato; “altro” perchè - come egli rivelerà nel canto II - è voluto da Dio e presuppone una guida; “altro” perchè nei tre regni dell'aldilà.

Dante d'impulso decide di seguire l'amato poeta e maestro; ma subito sopravviene in lui un dubbio: un viaggio così l'avevano compiuto S.Paolo ed Enea, uomini scelti da Dio per una missione grandiosa; ma per lui non sarebbe una follia intraprendere tale cammino? Vedendolo esitante, timoroso, Virgilio gli svela la congiura d'amore nei suoi confronti, in Cielo, di “tre donne benedette”, Maria, Lucia, Beatrice; e gli dice che Beatrice stessa è scesa nel Limbo a pregarlo di portargli aiuto.

Riaffiora in questo momento, nel poeta, la memoria dell'incontro determinante della sua vita, quello appunto con Beatrice, nel quale egli aveva fatto un'esperienza nuova, forte di sé, sentendosi amato da Dio attraverso di lei. Allora decide definitivamente di seguire Virgilio nell'arduo cammino. La grandezza di Dante, a questo punto della sua storia, sta nell'aderire al respiro di verità, di libertà di un incontro ormai lontano nel tempo, dimenticato, che ora gli viene discretamente riproposto. Egli ha il coraggio di anteporre questo incontro ad anni di pregiudizio, di errori; ed ecco che subito affiora una prima se pur confusa intuizione della vita come vocazione e come compito nel mondo.

L'incontro con Virgilio fa emergere subito l'aspetto più importante della vicenda: la salvezza giunge all'uomo dal di fuori, attraverso degli incontri. Non c'è traccia di autoeducazione nella Commedia: il cammino nella vita si fa attraverso l'incontro con un maestro che evoca al fascino della verità, che la testimonia esistenzialmente. Platone non sarebbe Platone se non avesse incontrato Socrate; gli apostoli non sarebbero gli apostoli se non avessero incontrato Gesù Cristo; Dante non sarebbe Dante se non avesse incontrato, in mezzo a tanti altri incontri importanti, ma non così determinanti per la sua vita, Beatrice. E con Beatrice anche Virgilio. L'autentica novità nella vita è portata da un avvenimento di cui si fa esperienza, da un avvenimento dovuto all'irrompere di presenze significative.

Potremmo qui chiederci: siamo noi, per i nostri alunni, presenze significative, presenze che portano una novità, che provocano a un'esperienza?


Già in questa vicenda iniziale emerge la sapienza pedagogica di Dante. Il realismo cristiano e umano che caratterizza la sua mentalità, come quella dell'uomo medioevale, infonde la convinzione che l'uomo sia educabile fino alla morte. L'educazione non riguarda appena il bambino o l'adolescente, ma l'uomo di qualunque età. Dante ha 35 anni quando inizia questo cammino alla sequela di Virgilio (poi di Beatrice, infine di S.Bernardo).

Ci sono dei momenti in cui i giovani, gli adolescenti vanno in profonda crisi e ci sono dei momenti in cui fanno di tutto per portarci alla disperazione o alla rabbia. Davanti a un giovane difficile, i nostri atteggiamenti di adulti possono essere due: l'atteggiamento della rabbia, (non è possibile che ti comporti così..) o l'atteggiamento della rassegnazione, (le ho provate tutte ma non c'è niente da fare...). Uno dei momenti chiave che decide la vita di un giovane può essere proprio questo. Incoraggiare un giovane è, in sintesi, dare fiducia quando non vi sono risultati positivi. Vi sono dei giovani che fanno di tutto per apparire incapaci, ribelli, pigri e attirano così o la rabbia o lo sconforto degli adulti. Educare un giovane in difficoltà è risvegliare in lui la speranza di un possibile e concreto cambiamento della sua esistenza. La vera sfida non è tramettere dati e nozioni ma risvegliare nei giovani l'idea che studiare è bello; che è la cosa più bella e che la fortuna più grande che hanno rispetto alle generazioni passate, è che possono scegliersi un'identità, un futuro professionale che li realizzi pienamente.

Pregiudizi, convinzioni, rimproveri e ferite narcisistiche al loro io ci pongono nella condizione che la cosa più difficile non è insegnare loro un metodo di studio, ma creargli la motivazione, sbloccare l'energia, risvegliare la speranza che è possibile vivere con gioia, soddisfazione la loro esperienza scolastica.

Che cosa vuol dire allora incoraggiare? Incoraggiare è credere in loro quando nessuno ci crede. L'incoraggiamento oggi manca perchè, spesso, per noi adulti non è la priorità e ci lasciamo prendere dall'ansia di trasmettere tutto ciò che possiamo, dimenticando il significato profondo del termine educare (tirare fuori e non riempire...).

Incoraggiare allora vuol dire sentire che dove c'è un problema c'è sempre una soluzione, questo deve diventare sempre di più il cuore dell'educazione. Non è una cosa che bisogna capire, bisogna sentirla, perchè questo riempie di energia in termini costruttivi e non distruttivi. Perchè l'atteggiamento peggiore che l'educatore o il genitore può tenere è quello ansioso. L'ansia in realtà è la figlia della paura. Perchè i ragazzi sono in ansia per la maturità o per un'interrogazione? Perchè hanno paura. Perchè sono in ansia di incontrare qualcuno di nuovo? Perchè hanno paura di essere giudicati, di fare brutta figura. Dove c'è ansia c'è sempre una paura. Se io sapessi, che indipendentemente dal problema, c'è una soluzione, le mie energie non sarebbero più fagocitate dall'ansia, perché l'ansia brucia energie vive che non sono più orientate verso la soluzione del problema. Infatti ogni genitore è decisamente un buon genitore per i figli di un'altra persona. Così vale per l'educatore. Ma se sono così bravo con i figli e gli studenti degli altri, purificandomi dall'ansia che condiziona negativamente i rapporti con i miei figli e i miei alunni, posso riuscirci anche con loro.

Programmo bene le mie lezioni in modo da non avere un atteggiamento ansioso rispetto allo svolgimento dei programmi e volgere così le mie energie verso gli studenti in modo da facilitare la loro effettiva interiorizzazione di ciò che insegno?

Maria, Lucia, Beatrice, Virgilio, S.Bernardo...una congiura d'amore

Un altro spunto pedagogico molto interessante che possiamo trarre dalla vicenda dantesca penso concerne la necessità di applicare un metodo educativo uniforme, sia fra docenti che fra corpo docente e famiglia, pur rispettando l'unicità delle modalità educative di ciascuno.

E' opportuno, al riguardo, precisare che l'educazione può essere occasionale o intenzionale. L'educazione occasionale è quella che non ha un progetto dietro. Allora ci possono essere molte situazioni in cui i giovani hanno un tipo di educazione, appunto, occasionale. Cosa vuol dire? Che in base alla persona che incontrano, alla compagnia che incontrano, alle risorse del territorio, al docente che incontrano, a quello che vivono, respirano l'atmosfera di un ambiente che però non ha dietro una chiara idea di che cosa significa diventare uomo o diventare donna. Ma bisogna avere una chiara idea di cosa vuol dire diventare adulti, per educare. E l'intenzionalità nasce dalla consapevolezza di un progetto.

E' quello che dovrebbero fare la famiglia e la scuola. Fin dalle materne, elementari, medie e superiori dovrebbero esserci i cosiddetti progetti formativi, non progetti soltanto informativi perché dare un'informazione non è formare una persona. Dare una nozione tecnica, non vuol dire formare un uomo o una donna. In realtà l'educazione intenzionale è meno presente rispetto a quella occasionale, soprattutto oggi. C'è molto più individualismo a tutti i livelli, anche a livello educativo e c'è meno sintonia, tra adulti, nell'affermare determinati principi.

Le energie di tutti gli educatori di una scuola dovrebbero essere rivollte alla realizzazione del progetto comune di individuare una strategia educativa per ciascun allievo, stando bene attenti a formulare sempre e solo critiche costruttive e mai distruttive verso alunni e colleghi.

Sul lavoro ma soprattutto in una scuola siamo tutti collettivamente responsabili dell'ambiente, perché le nostre parole influenzano quelli che ci circondano e il nostro discorso interiore influenza il nostro morale e i nostri risultati educativi.

Nei fallimenti educativi si riscontra una non comunicazione fra docenti e con gli alunni, un chiudersi nel mondo delle proprie convinzioni e punti di vista, un accusarsi reciproco, un elenco di torti e di ragioni senza fine.

Bisognerebbe imparare, da educatori, a rinunciare alle nostre chiusure, per riscoprire la luce e l'arricchente presenza degli altri, nella nostra vita.

Per l'adolescente, nel momento in cui vive all'interno di un ambiente dove c'è poca educazione intenzionale e vi è molta educazione occasionale, peggio ancora degli educatori che non si rispettano a vicenda e quindi difficilmente possono collaborare ad un progetto comune, aumenta il senso di smarrimento. E riuscire a ritrovare la gioia di studiare diventa davvero un'impresa...

Ritengo prioritario nella mia missione educativa aiutare l'adolescente a trovare la sua identità? Ritengo che la scuola presso cui insegno abbia delle iniziative adeguate al riguardo? Ritengo di aiutare adeguatamente la scuola nella preparazione di queste iniziative, come parte indispensabile del mio ruolo educativo? Collaboro con la direzione e i miei colleghi perché l'apporto personale di ciascuno vada a far parte di un progetto unitario, volto allo sviluppo integrale di ciascun alunno?


Estremamente importante è comprendere, dal punto di vista che abbiamo scelto, il motivo della definitiva decisione, da parte di Dante, di seguire Virgilio, che tutti sappiamo essere simbolo della ragione.

L'uomo non si muove, non cammina, non costruisce se non a partire da una positività, da una certezza in cui riposa e da cui trae energia per affrontare la realtà. La prima certezza, quella assolutamente indispensabile, è la certezza del proprio “io”. Ma il senso di sé viene a coincidere con qualcosa a cui si appartiene: è pertanto la certezza affettiva, la certezza di essere voluto, amato, che permette all'uomo come al bambino di dire “io” con verità, di andare verso la realtà, di usare la ragione.

Virgilio offre a Dante questa certezza con la sua rivelazione; e Dante ritrova il senso di sé, la forza per intraprendere il cammino che gli è proposto, una prima capacità di usare e di seguire la ragione.

Si potrebbero fare altri esempi ricorrendo al poema dantesco, es. Purgatorio XXVII: Arrivato all'ultima cornice, quella dei lussuriosi, Dante deve passare attraverso una cortina di fuoco, altrimenti non può procedere. Sa che è giusto, ma non si muove, nonostante le esortazioni, gli incoraggiamenti di Virgilio: “E io pur fermo e contra coscienza”. Solo quando il maestro gli dice che di là lo aspetta Beatrice, egli si getta nelle fiamme. Virgilio comprende e lo consola nel dolore di quella purificazione: “Lo dolce padre mio, per confortarmi,/pur di Beatrice ragionando andava...” (vv. 52-53).

Non si educa se non dentro un rapporto affettivo; e neppure si istruisce se non si dà al ragazzo una certezza affettiva, almeno la certezza che lui è importante per noi, che vogliamo il suo bene. L'incertezza affettiva compromette il rapporto con la realtà, anche con la pagina che si deve studiare, e impedisce l'uso della ragione: questa grande verità, che i primi canti dell'Inferno ci ricordano, dovrebbe essere tenuta sempre presente soprattutto da genitori e da insegnanti.

IL rapporto personale con l'allievo è indispensabile per svolgere efficacemente il mio ruolo educativo, ritengo che le attuali condizioni facilitano questo rapporto? Eventuali ostacoli provengono dalle mie resistenze interne (tendenza al nozionismo, abitudine all'insegnamento, noia...) o da eventi esterni (classi troppo numerose, scarsa formazione...).


Dall'”umanar” al “transumanar”

Niente è più incredibile della risposta

a una domanda che non si pone

R. Niebhur


Ma chi è veramente Beatrice per Dante? E che cosa significa che Virgilio è la ragione? Inoltre: perchè Beatrice non va direttamente a salvare il Poeta nella “selva oscura”, ma manda Virgilio? Per rispondere a queste domande rileggiamo gli ultimi canti del Purgatorio, centrali per la comprensione di tutta la vicenda di Dante.

Sulla cima della montagna del Purgatorio, nel Paradiso terrestre, si fa incontro al Poeta Beatrice in persona ed egli sperimenta la grande potenza dell'antico amore. Ma ella, sul carro che simboleggia la Chiesa, circondata dalle Virtù e dagli angeli, lo apostrofa duramente, rinfacciandogli i suoi peccati. Questi sono da lei così sintetizzati: “e volse i passi suoi per via non vera,/ imagini di ben seguendo false/ che nulla promission rendono intera” (Purg. XXX, 130-132).

Dante ha inseguito beni terreni in una prospettiva autonoma, come assolutizzandoli (è questo il grande tema del Purgatorio e, radicalizzato, dell'Inferno), e ha sperimentato che essi non rispondono, al pari degli idoli biblici, al desiderio profondo del cuore. Come papa Adriano V, steso a terra bocconi nella cornice degli avari, egli potrebbe dire: “Vidi che lì non s'acquetava il core” (Purg. XIX, 109).

Spezzando il legame con Beatrice, era avvenuta la separazione del cielo dalla terra nella vita di Dante e ciò aveva reso il suo sentimento religioso vago, astratto, aveva reso anche la sua vita meno vera, meno umana, meno razionale; e la realtà era diventata per lui paurosa come una selva oscura. Si era ottenebrata in lui l'intelligenza, cioè la capacità di percepire il reale tenendo conto di tutti i suoi fattori, e anche il cuore, in cui l'intelligenza ha il suo fondamento.

Dante deve ora essere aiutato a riprendere consapevolezza della realtà, cioè a ritrovare innanzi tutto la ragione. Ecco allora che il cielo gli manda Virgilio. Ma perchè proprio Virgilio? Il grande poeta, nella cui opera la coscienza precristiana ha raggiunto una apertura vertiginosa al mistero, per il Medioevo rappresentava il vertice assoluto dell'umanità e della razionalità antica. Inoltre, storicamente, fu certo una rilettura dell'Eneide che scosse fortemente Dante dal suo sonno, mostrandogli un eroe pagano più religioso, più umano, più razionale, nel cammino dell'esistenza, di lui che era cristiano. Dunque Virgilio poteva giustamente essere esaltato come maestro di umanità, di razionalità (ovviamente si tratta della ragione in senso premoderno, antico e cristiano, della ragione sottomessa all'esperienza, della ragione come apertura al mistero della realtà e non come misurazione della realtà).

Ma a questo punto occorre porsi delle domande: perchè Virgilio è mandato a Dante prima di Beatrice? Perchè Beatrice stessa lo va a cercare nel limbo per inviarlo al suo “fedele” infedele?

Tocchiamo qui il nodo culturale ed educativo più interessante di tutto il Poema, su cui vale la pena di soffermarsi.

L'uomo è “sete”, come abbiamo visto, è “disio”, “impeto” verso qualcosa che lo compia; è un incompiuto che cerca il suo compimento. A questa ricerca umana Dante trova una risposta; ma per poter percepire la risposta come risposta bisogna che l'uomo senta se stesso, le urgenze della sua umanità, il grido del suo cuore. Dice il grande studioso americano R. Niebhur: “Niente è più incredibile della risposta a una domanda che non si pone”. E' il rinnegamento del cuore che rende indifferenti alla risposta, a qualsiasi risposta. Ecco perchè Beatrice non può andare subito da Dante: perchè il Poeta non ha ancora ritrovato l'orientamento naturale del cuore al bene, alla felicità, l'originaria tensione della ragione alla verità. Solo quando avrà ritrovato la posizione umana, l'atteggiamento razionale, potrà fare esperienza della fede come compimento delle urgenze della ragione e del cuore.

Virgilio guida Dante attraverso l'Inferno e il Purgatorio perchè gli deve insegnare a essere uomo, a comprendere tutta la dignità dell'umano e tutta la dignità della ragione, della ragione come coscienza del mistero della realtà. Che la realtà è più grande di noi, che deborda dalle nostre misure; che ogni cosa ha un punto di fuga verso un orizzonte inafferrabile, che è segno del mistero; infine che vale la pena vivere solo per il mistero; basta la ragione per comprenderlo, basta Virgilio, basta essere poeti, anche atei dichiarati o agnostici come Leopardi e Montale. Questa è appunto la lezione di Virgilio-ragione, che si risolve in un “umanar” perchè la razionalità è appunto il modo di vivere dell'uomo. Proprio perchè Virgilio è consapevole della dignità della ragione è anche umile. Egli attende un intervento superiore che gli porti soccorso là dove sperimenta la sua impotenza e sa di non poter capire fino a fondo il mistero della realtà, sa che è la fede l'occhio che penetra quel mistero e lo dichiara più volte: “Ed elli a me: “Quanto ragion qui vede,/ dir ti poss'io; da indi in là t'aspetta/ pur a Beatrice, ch'è opra di fede” (Purg. XVIII, 46-48); oppure: “E se la mia ragion non ti disfama/ vedrai Beatrice, ed ella pienamente/ ti torrà questa e ciascun'altra brama” (Purg. XV, 76-78); o ancora: “State contenti, umana gente al “quia”;/ che, se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era partorir Maria” (Purg. III, 37-39).

Dunque Beatrice giunge quando Dante, divenuto ormai cosciente, attraverso l'insegnamento di Virgilio e i tanti incontri fatti, della sua attesa di uomo, può sperimentare che la fede risponde alle esigenze umane più di ogni altra ipotesi; anzi che potenzia vertiginosamente la ragione, la capacità affettiva, la libertà.

Beatrice continua a credere nelle potenzialità di Dante anche quando lui aveva dimostrato di scegliere tutt'altra strada, anzi fa molto di più, continua a credere in lui e attende che lui faccia pienamente il suo percorso umano per poter realmente accogliere il messaggio da lei trasmesso. Significativo, al riguardo Par. XXI dove Beatrice sembra trattenere il proprio sorriso, perchè la potenza di quel sorriso avrebbe abbagliato completamente Dante.

Ritengo sia questo un messaggio pedagogico fondamentale, perchè non si può amare ed aiutare i nostri ragazzi umiliandoli, così come non si può gettare violentemente un secchio d'acqua in un cucchiaino e pensare che lo stesso possa o debba contenerla.

Tecnicamente parlando, nel momento in cui io vado a colmare un grande bisogno che c'è all'interno della persona, è come se io portassi dell'acqua in terra arida. Si prende dell'acqua e si mette in una terra dove ci sono dei semi che sono le nostre potenzialità, se innaffiamo ogni giorno e ne abbiamo cura giorno dopo giorno germoglia la vita e la gioia di vivere. Purtroppo noi siamo in una società piena di oggetti, che non ci danno la possibilità di vivere i sentimenti e le emozioni. Chi educa dovrebbe riuscire a mettersi dalla parte dell'altro, dalla parte opposta, quella concreta dell'unico essere che gli vive di fronte, che si trova assieme a lui nella situazione comune ed unica dell'educare, ma, contemporaneamente del venire educati. Il riuscire a mettersi dalla parte dell'altro, a livello di strategia educativa, si chiama empatia. L'empatia è sentire ciò che l'altro sente, è sentire che l'altro ha un determinato bisogno.

La grandezza, la persuasività di un metodo educativo efficace sta proprio nel fatto che esso si fonda sulla natura, non su principi e regole astratte: mi metto al suo posto...stare accanto a un giovane, vuol dire soprattutto mettersi in contatto empaticamente con ciò che lui sente; perciò quando io gli dico: “Io sento ciò che tu senti”, si rompono le catene dell'isolamento, le catene del disagio, è l'inizio di un nuovo percorso.

Ciò non vuol dire non essere autorevoli...anzi! L'autorità compete di diritto ad ogni educatore e comporta l'assunzione di specifici doveri educativi che possono essere attuati nella linea del rapporto impositivo-sostitutivo o stimolativo-collaborativo.

Quando l'educatore usa in modo dispersivo od abusivo la propria autorità ai danni dell'educando, si crea una modalità non pertinente e non adeguata del potere educativo.

Ci sono varie figure, nel corso della crescita, potenzialmente in grado di spaventare e traumatizzare un educando, al punto da provocare una diminuizione dell'autostima e sicurezza di sé, relativamente alla disciplina insegnata, ma non solo, vista la necessità di guardare ad un'educazione integrale del soggetto.

Un sinonimo di autoritarismo che può raffigurare tale comportamento è dispotismo. Un atteggiamento dispotico non ammette discussione, ma solo obbedienza ai propri voleri. E' inevitabile cadere, in tal caso, in un'educazione rigida e severa, volta a costruire un adolescente con il metro dell'età adulta.

Un'altra possibilità è il non esercizio della propria autorità: la linea della permissività.

Anche in questo caso come nell'educazione rigida, viene a mancare la valorizzazione della positività dell'altro.

In sostanza il permissivismo trasmette, in modo indiretto, un messaggio di indifferenza nei confronti dell'educando al quale viene detto: << Tu puoi fare bene o male nella vita, che a me non interessa nulla>>. E' l'annullamento della persona, quasi a non farla esistere.

Così come l'insegnante troppo confidenziale rischia di perdere la sua autorità, perchè gli alunni possono scambiare tale disponibilità per mancanza di fermezza e sicurezza nel suo ruolo. Nella relazione educatore-educando vi è un'assunzione di responsabilità, in cui ognuno ha il diritto-dovere di esercitare il suo ruolo: da una parte c'è l'insegnante e dall'altra l'allievo.

C'è chi deve educare e chi deve essere educato e ciò implica una relazione non paritaria.

E' rischiosissimo confondere i ruoli e quando ciò avviene si svilisce ed annienta l'efficacia dell'azione educativa.

Possiamo definire l'autorevolezza, invece, un esercitare l'autorità a vantaggio, per meglio dire al servizio della persona, ed ha, come scopo esclusivo, lo sviluppo dell'educando.

Dice, al riguardo, G. B. Vico: <<Compito dell'educazione non è quello di fornire schemi astratti di vita, ma quello di richiamare all'esistenza e di sollecitare a prendere posizione, a rompere schematismi e formalismi, a proporre la novità dopo avere dato una certa forma ai propri simboli personali. Chi non dispone di idee sue non può educare; può forse istruire. Educare, è un richiamo perentorio all'esistenza, alla intenzionalità in ordine al pensare e all'agire, alla possibilità di trascendere l'esistenza stessa pur vivendo in essa, alla consapevolezza che l'esperienza esistenziale può e deve tradursi in esperienza educativa all'interno della quale si realizza il valore-reale-persona, l'unico valore reale>>.

La persona capace di vivere ed incarnare “il valore” è il “maestro”. L'umanità crescerà nella misura in cui cresceranno le singole coscienze ed è proprio per questo che educare è, essenzialmente, un compito d'amore.

Questa consapevolezza attinge dal di dentro e produce un fascino silenzioso, avvolgente, pervadente ma non invadente, perchè rispettosa dei tempi di crescita e di maturazione della persona.

La luce del maestro autorevole produce un fascino tale da far nascere il desiderio di essere come lui.

Non si tratta di presentare un modello prefissato rigidamente, un canovaccio da riprendere ed imitare, perchè l'educatore non deve imporre o plasmare secondo un prototipo stampato, ma essere come la prefigurazione, la pregustazione di ciò che il giovane potrà essere ma a modo suo: con i suoi doni, con la sua vita, con i suoi talenti, con tutta la libertà e i doni tipici di una creatura nuova, dotata di un'unicità e singolarità irripetibili.

Il punto cardine dell'autorevolezza educativa è senz'altro il principio della coerenza. Gli adolescenti hanno come caratteristica quella di chiudere gli orecchi ai consigli e aprire gli occhi agli esempi.

I ragazzi non dovrebbero mai dire: i miei genitori o i miei insegnanti non praticano, ciò che pretendono con i loro comandi.

Un educatore dovrebbe essere capace di divertirsi, di sorridere, di portare allegria e novità, di stimolare interesse e fiducia. E tutto questo grazie alla coerenza di uno stile di vita, che diventa il modello e la guida per orientare il proprio cammino di crescita verso l'età adulta.

Mi sento di compiere pienamente la mia missione di educatore, essendo per i ragazzi prima che trasmettitore di notizie esempio da imitare per l'impegno e la passione con cui svolgo il mio lavoro e la cura che ho per ciascuno di loro?

 
             
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